martedì 13 settembre 2011

La Via del Sufismo



di Gabriele Mandel


Noi tutti siamo usi ormai a credere alla “nostra” verità, e a capire – dei fatti e delle circostanze – non il significato obiettivo ma il significato soggettivo. Crediamo (o capiamo) per solito a ciò che si adatta alla nostra idea, al nostro desiderio, soprattutto alla nostra aspettativa. Partiamo sempre da un preconcetto inconscio, e ripetiamo attitudini, frasi, gesti condizionati da un apprendimento risalente all’infanzia, anziché agire indipendentemente. Siamo cioè per solito ben lungi dall’aver realizzato noi stessi, dall’essere liberi da passioni, pregiudizi, pulsioni, da cui invece sono liberi i sufi.

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Il sufismo è per Abû Sa’îd alKarrâz «eliminare dalla mente quanto vi si trova: verità immaginarie, opinioni, condizionamenti; ed affrontare così tutto ciò che potrà accadere”.

Per Abu Sa’îd ibn alKhayr (976-1049) «significa distaccarsi dalle idee e dai preconcetti fissi, senza tuttavia evitare ciò che accade», ed è anche «abbandono del superfluo; e non vi è nulla di più superfluo dell’Io».

Per Ghazâlî (1058-1111) «la Via si perfeziona mediante la scienza e la pratica, i sûfî sono uomini di esperienza, non di parole».

Nurî Mujaddî (XVIII s.) disse: «Il sufi è uno che fa ciò che gli altri fanno, se è necessario. Ma quando è necessario fa anche quello che gli altri non possono fare».

E oggi, Idries Shah: «Uomo senza spazio e senza tempo, il sufi rende operante la sua esperienza all’interno della cultura, del paese, del clima nei quali si trova a vivere». E Seyyd Hossein Nasr (1933): «Il sufismo cerca il significato interiore tramite la penetrazione della forma esteriore, così che per sua stessa natura è qualificato a sondare la misteriosa unità esistente di là dalla diversificazione delle manifestazioni religiose».

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Ibn alFarid (1181-1235) scrisse: «Bevemmo al nome del nostro Amico inebbriandoci ancora prima che la vigna fosse creata», intendendo con questo che i sufi si considerano di là dal tempo e dalla storia. “Vigna” qui significa l’Islamismo. Il maestro Abu alHassan alBûshanjî (morto a Nîshâpûr nel 959) disse: «Un tempo essere sufi era una realtà senza nome»; affermando così che il sufismo esisteva ancor prima d’essere chiamato così.

Ibn Khaldûn scrisse nella sua precitata opera monumentale: «Il sufismo si basa sull’assunto del metodo, che per coloro che vennero poi chiamati sufi era sempre stato considerato il Sentiero della Verità e della Retta Guida, così come lo avevano già fatto i primi musulmani, gli uomini della cerchia di Maometto e della seconda generazione». Notiamo che Ibn Khaldûn usò per definire il sufismo lo stesso termine (Sentiero della Verità e della Retta Guida) usato per il Tao Te Ching di Lau Tzu (V sec. a.C. circa).

La Fede assoluta dei tempi di Maometto, la ihsân, era già una via sufica, e in seguito i sufi attribuirono volentieri a se stessi il detto (hadîth) del Profeta: «Ihsân è adorare Dio come se tu lo avessi visto, poiché anche se tu non lo vedi, Egli comunque vede te». Ciò parrebbe collocare il sufismo nell’ambito della dottrina religiosa, del misticismo. Nulla di tutto ciò. I termini di “misticismo” e di “ortodossia” vanno intesi in modo del tutto differente dall’assunto europeo, già quando sono riferiti alla religione islamica. Acquistano poi tutt’altro significato nell’ambito sufico.

Per ciò che riguarda il misticismo, leggiamo in Idries Shah (1946): «I mistici arabi – in un primo tempo conosciuti come i prossimi (muqarribun) – ritenevano che vi fosse essenzialmente una unità negli insegnamenti interiori di ogni qualsivoglia credenza. [...] Come conseguenza dei contatti con gli Hanif, ogni antico centro di insegnamento segreto divenne una piazzaforte dei mistici islamici. Il fossato che per gli altri mistici separa – nella pratica e nella scienza esoterica – i cristiani, gli zoroastriani, gli ebrei, gli hindù, i buddhisti, eccetera, veniva così colmato! Questo processo, la confluenza delle essenze, i non-sufi non l’hanno mai colto nella sua realtà, perché per tali osservatori è impossibile rendersi conto che il mistico musulmano vede e contatta la corrente mistica in ogni altra cultura allo stesso modo in cui un’ape fa bottino in molti fiori senza per questo diventare essa stessa un fiore. Neanche l’uso sufico del termine confluenza per indicare questa funzione è stato capito pienamente». Per l’Islàm infatti il misticismo viene genericamente inteso come un atteggiamento individuale che non esclude l’operatività nella vita normale, con assoluta differenza dagli anacoreti cristiani. «Gli anacoreti – scrive ancora Idries Shah – sono soltanto dei professionisti dell’ossessione che hanno dato l’impressione al prossimo che il deserto o le montagne siano i soli luoghi in cui il mistico deve passare tutta la sua vita. Essi hanno preso un filo per l’intero tappeto».

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Di fuori dal tempo, di fuori dal contesto politico, operanti nella società, e professanti almeno apparentemente la fede islamica, i sufi sono allora o no dei religiosi, anche nel senso islamico di questo termine? A un domanda siffatta Ahmad alYasavî († 1166), fondatore dell’Ordine nomade Yasaviyya, rispose: «In tutta la letteratura sufica troverete che spesso asseriamo di non essere interessati alla religione, e nemmeno alla sua mancanza. Come si può conciliare questo con il fatto che i credenti ci considerano uomini di fede? Lo scopo è il perfezionamento dell’uomo, e l’intimo insegnamento di tutte le religioni mira a questo. Per conseguirlo esiste sempre una tradizione tramandata da una catena vivente di adepti che selezionano i candidati cui impartire l’insegnamento. Questo insegnamento è stato tramandato fra uomini di tutti i generi. Per la nostra devozione all’Essenza noi abbiamo raccolto nella via del sufismo tutti coloro che sono meno interessati ai fatti esteriori; cosicché abbiamo conservata intatta e segreta la nostra capacità di continuare la Successione. Nelle religioni dogmatiche degli ebrei, dei cristiani, degli zoroastriani, degli indù, dei musulmani, che badano alla lettera, questo fatto prezioso è andato perduto. Noi restituiamo a tutte le religioni questo principio vitale; ed ecco perché vedete tanti ebrei, cristiani e altri fra i miei seguaci. Gli ebrei dicono che noi siamo veri ebrei, i cristiani ci considerano cristiani. Solo quando si conosce il Fatto Massimo si capisce la situazione delle religioni attuali, e anche della mancanza di fede, poiché mancare di fede è un tipo di religione con una sua fede particolare».

[...]

Giungiamo così al nocciolo della questione. Una cosa è studiare la storia del sufismo (ci si deve accontentare dei documenti forniti, delle ipotesi, di ciò che è trapelato – o che fu lasciato trapelare perché oramai non più pericoloso o perché superato, e perciò inutile –) e un’altra è capire il sufismo, semmai in vista di percorrerne il cammino. In questo caso occorre sapere che il sufismo è azione e non insegnamento scolastico; non vi è metodo fisso ma percezione di ciò che è utile a seconda dei casi; e consapevolezza dell’inutilità di un sistema; non vi sono perciò insegnanti, bensì maestri che sanno come essere utili, senza cadere nella presunzione personalistica di sapere.

Provate a prendere un pezzo di lievito, e a mostrarlo a chi non lo conosce. Egli potrà dire che è del gesso, o del sapone, o un pezzo di formaggio. Se pensa che sia una cosa da mangiare, forse l’assaggerà, sputandolo subito perché è cattivo e acido. Ma chi sa di che si tratta lo impasta con la farina, che così lievita, e diventa pane. Ecco: il sufismo è lievito.


– da “Il sufismo vertice della piramide esoterica”
di Gabriele Mandel



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